Il sacerdote catanese, missionario in Cile per trent’anni, adesso presta servizio presso la casa circondariale di Piazza Lanza a Catania. Ci ha portato la sua testimonianza di queste difficili settimane.

Illustrazione di Turi Distefano | fb.com/argoimago
Da sempre sento di avere una particolare inclinazione per le periferie: al loro interno, del resto, non ci sono differenze di classe sociale o di nazione. Puoi trovarle ovunque: dentro casa, dietro l’angolo, nella sofferenza del nostro amico più caro. La periferia non è una dimensione geografica, ma umana». Le parole di don Antonio Giacona – da qualche mese cappellano del carcere di “Piazza Lanza” a Catania – non sono soltanto sfoggio di profonda sensibilità caritativa, ma anche una preziosa lezione sul significato autentico della parola “missione”.
Proprio la sua esperienza, che lo ha portato per 30 anni tra le strade del Cile, rappresenta la più eloquente testimonianza di come non sia importante il luogo del nostro impegno, ma lo scopo. «Tutta l’umanità – continua – ha in comune la medesima risorsa: un cuore colmo di desiderio. Non c’è uomo o donna che io abbia conosciuto in qualsiasi parte del mondo che non riveli di possederlo. Il mio compito è accompagnare coloro che di quel desiderio vogliono scoprire l’origine e l’oggetto, e la pienezza del suo compimento». Con questo spirito il prete catanese, tornato a casa sul finire del 2017, non ha esitato quando si è presentata l’occasione di proseguire la sua opera all’interno dell’istituto penitenziario.
«Sono edificato e commosso dalla reazione che tutti i lavoratori dell’istituto hanno messo in campo e dal dialogo costruttivo instauratosi di fronte alle sfide di questo momento difficile»